Non dire razzista a un razzista

Il livello di aggressività è alto. Ha superato l’asticella. Dalla tv e la radio gridate “alla Sgarbi” e “alla Cruciani”, dai leoni da tastiera agli autobus e le piazze, il passo è stato abbastanza breve. Perché, oggi, ci indigniamo e alziamo “gli scudi”, mentre prima ridevamo anche delle battutacce liquidandole (solo) come politicamente scorrette? E anche che palle il politicamente corretto! Non bastava chiamarlo buona educazione? Forse ci avrebbe stufato meno, perché in italiano avremmo compreso meglio il significato. Perché, quindi, oggi ci indigniamo e alziamo “gli scudi”, mentre prima ridevamo? (A onore della cronaca a me non è mai venuto da ridere né con la capra detta da Sgarbi, né con la violenza verbale di Cruciani). Che cosa ci fa paura, ora? Abbiamo forse all’improvviso compreso che non solo le parole possono uccidere quanto una pallottola (pensiamo alla calunnia che è un venticello, per esempio, quindi cosa antica), ma che le parole vanno oltre: creano i fatti?

L’accuratezza con la quale si scelgono ogni volta aiuta di più o di meno a capire gli altri, a farsi comprendere e anche a comprendere noi stessi e le nostre relazioni.  Trovare le parole par dirlo è un lavoro. In giro sembra essersi smarrito il senso delle parole. O, al contrario, pare se ne voglia fare volutamente un uso criminale.  E riguarda tutti, in modo trasversale e per ragioni diverse. E i benemeriti e maledetti social amplificano il fenomeno. Lo fanno da molto tempo, trovando terreno fertile già fuori nella società sempre meno socievole (dalla tv “alla Sgarbi” e la radio “alla Cruciani” per ri-citare due esempi abbaglianti…) dove oggi dire a un razzista che è razzista (o sessista, o antidemocratico, o fascista, o capra, o buonista, o radica chic eccetera) non solo non porta l’altro a una riflessione o a sentirsi “inadeguato” ma anzi, aumenta il suo convincimento di essere dalla parte giusta proprio perché lo si “offende”. Insomma dire a un razzista che è razzista non gli fa cambiare idea. Anzi gliela rafforza. Nemmeno dire a uno scemo che è scemo, gli fa cambiare idea. Eccetera. È una partita persa. Di più: è giocata a favore dell’interlocutore/avversario di turno. Bisogna cambiare strada. Non so quale sia. Io sto provando a eludere gli scontri verbali opponendo un profondo silenzio affinché le parole violente nel silenzio ritrovino il reale peso, e gravino su chi le pronuncia. Una parola inizia a vivere dopo che la si è detta, va lasciata aleggiare nell’aria. La parola ha bisogno del silenzio che la segue, perché chi la dice (oltre che chi l’ascolta) ne possa ascoltare l’eco.

Comunque. Non so quale sia la strada.

Il video qui sotto è del 2017. Solo un anno fa. È una stilettata. Un colpo allo stomaco al cuore alla pancia e al cervello. Intelligente. Terribile. Fosse servito. Per fermarsi prima. Fosse servito per fare un po’ di silenzio.


NB: Il testo “recitato” dagli attore è il risultato di una copiosa raccolta di commenti intercettati sui social fino allo scorso anno. La storia continua.